Sa piscadura: il bollito da pescare che cramede gente

Sa piscadura: il bollito da pescare che cramede gente

Hai presente quei piatti che quando vengono preparati, rigorosamente dalle mamme o dalle nonne, tutta la famiglia al completo timbra il cartellino e si fa trovare seduta a tavola per le 13,00 in punto? Ecco, “Sa Piscadura”, di tradizione bonese (e dintorni), è uno di quei piatti.

Mia suocera l’ha preparato questa domenica, aggirando leggermente la tradizione che vuole “sa piscadura” preparata rigorosamente il giorno del giovedì grasso. Insomma tre giorni in ritardo, ma giuro, sembra non se ne sia accorto nessuno.

Preparare questo piatto, che te lo dico subito è povero, semplice, contadino, pastorale, rustico, richiede del tempo, ma ne vale la pena. Non è solo per la famiglia che torna, non è solo per il buon profumo di bollito, è anche per il gusto di terra sarda, per la sensazione di mangiare qualcosa di veramente genuino, per quella idea che regala a tutti di ricetta antica e della memoria.

“Sa piscadura cramade gente”, continuava a ripetere mia suocera: “Sa piscadura” chiama gente. E non aveva tutti i torti che di gente ce n’era parecchia. Insomma non è un piatto che ti metti a preparare per due persone!

Sa piscadura nella memoria

Lo abbiamo detto, ma ripetiamolo: il piatto è povero, contadino e pastorale e deve aver trovato grande efficacia in quei periodi più o meno lontani durante i quali tutte le famiglie (agiate) possedevano un maiale. Quando l’animale veniva ucciso le parti meno nobili (testa, orecchie, lardo, ossa) venivano messe da parte. Per conservarle le si poneva sotto sale, tecnica quasi infallibile di conservazione.

Nel momento giusto quelle parti venivano utilizzate per un piatto sostanzioso, che faceva mettere su qualche velo di pancetta.

“Sa piscadura” deve probabilmente il suo nome all’abitudine di pescare le varie parti del bollito dal grande pentolone nel quale sono state cotte.

Sa piscadura: la preparazione

Modernamente la carne disponibile in ogni periodo dell’anno si acquista qualche giorno prima (diciamo 7 giorni) e le parti interessate si mettono sotto sale. “Perché?” ho chiesto io. “Perché diventano più gustose”, mi è stato risposto. In realtà la pratica del sotto sale risale al tempo in cui la carne doveva essere conservata a lungo e senza frigoriferi: ma alla fin fine è tutto vero, la carne messa sotto sale qualche giorno prima è piuttosto gustosa.

Il grande giorno viene messa a bollire, seguono poi ceci (e fave), patate con buccia e tagliate a metà se si vuole velocizzare, verza, cipolle (meglio se selvatiche), fagioli, bietola e pure “s’armuranta”, un’erba selvatica che un tempo doveva essere più semplice che oggi recuperare. Dopo lunghe ricerche mi è sembrato di capire che si tratti del rafano rusticano, detto anche ramolaccio o armoracia. Insomma, durante le mie prossime passeggiate bonesi andrò a cercarlo, lui e le cipolle selvatiche.

In genere non si è troppo rigorosi in merito a quel che si può o non può mettere all’interno del pentolone: tutte le verdure di stagione, mi è stato detto, perché è vero che “sa piscadura” si fa per il giovedì grasso, ma è anche vero che si prepara tutte le volte che se ne ha voglia e se ne ha la possibilità.

L’abilità della cuoca sta nell’azzeccare i tempi di cottura: tutto deve essere ben cotto, niente deve essere stra cotto. Anche la quantità di sale mette seriamente in difficoltà: così mi è sembrato di capire visti gli elogi alla piscadura di mia suocera “giusta di sale”.

Pezzo forte del piatto è il pane carasau che a Bono è detto pan’e vresa – fresa, che viene bagnato nel brodo e utilizzato per accompagnare “sa piscadura”. In genere carne, legumi e ortaggi si avvolgono in piccole porzioni di pane ammorbidito: il tutto diventa un delizioso involtino da mangiare in un boccone.

La tradizione di questo piatto, antica e profonda come vecchie radici non intende essere dimenticata. Ieri era un piatto di festa e oggi pure è un piatto di festa che “cramade gente”, come tutte le cose buone sono in grado di fare.

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